Smagliature digitali è, nella descrizione delle sue stesse curatrici, un@ cyborg transfemminista queer che guarda attraverso un caleidoscopio. Un libro incarnato fatto delle pratiche e delle riflessioni dell* autor* che lo hanno scritto. Dopo essere stato presentato e discusso in varie città italiane, in spazi ibridi, librerie, collettivi di non una di meno, associazioni LGBTIQ+ è diventato una performance che assembla le voci di tutt* l* autor*, un esperimento di narrazione divergente che racconta come muta la relazione tra corpi e tecnologie. Carlotta Cossutta, Valentina Greco, Arianna Mainardi e Stefania Voli sono transfemministe, ricercatrici precarie in discipline diverse, studiano i corpi, le sessualità e le tecnologie. Entrano e escono dagli stretti margini dell’accademia, mescolando teoria e pratica politica. Vivono tra Milano e Bologna – ma più spesso sui treni – colmando le distanze fisiche nelle piattaforme digitali. Hanno curato la collettanea Smagliature Digitali. Corpi, generi e tecnologie, Agenzia X, 2018. SMAGLIATURE DIGITALI HACKERARE LA DRAMMATURGIA DA UNA PROSPETTIVA TRANSFEMMINISTA Performance a due voci Voce 1: Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer. Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che guarda attraverso un caleidoscopio. Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che si rifiuta di giocare a testa o croce. Voce 2: Quali dovrebbero essere i metodi discorsivi del transfemminismo? Voce 1: Una scrittura femminista dovrebbe includere, oltre ai testi, blog, performance, aggiornamenti di stato, graffi e tatuaggi, lesioni vaginali (lesioni protesiche). Voce 2: Smagliature digitali Voce 1: Creiamo un nuovo linguaggio alternativo (che dia nuovi nomi ai corpi e alle esperienze), ma allo stesso tempo decostruiamolo, mettiamolo costantemente in discussione. Il linguaggio diventa una pratica potente eppure volatile, una volatilità che non è disorganizzata bensì dis/organizzazione necessaria alle fluidità, complessità e contestualità delle identità e delle esperienze, in particolare trans, non binarie e queer. Voce 2: L’innovazione tecno-scientifica deve essere collegata a un pensiero teorico e politico collettivo nel quale donne, queer e persone di genere non conforme giochino un ruolo senza precedenti. Bisogna re-impiegare le tecnologie esistenti e inventare nuovi strumenti cognitivi e materiali al servizio di fini comuni. Bisogna insiste(re) ferocemente sulla possibilità di un cambiamento sociale su larga scala per tutta la nostra stirpe aliena. Voce 1: Come parlare di tecnologia quando sappiamo che la costruzione sociale del genere, del sesso e delle pratiche passa da una programmazione a codice chiuso e che, anche se lo apriamo, lo liberiamo e lo rendiamo esplicito, la maggior parte del codice riaperto torna a chiudersi a causa dell’industrializzazione selvaggia, del desiderio di sposarsi, della moda, degli ospedali, del carcere? Voce 2: Una tecnologia transfemminista valorizzerà l’analfabetismo nella sua funzione improduttiva per l’industria, come un modo per percorrere strade impensate per la produttività e la rapidità, come una forma di resistenza. Una tecnologia transfemminista ci dice che “binarism is for computer” Voce 1: Cercare tracce di resistenza, seppur minime, nelle condotte individuali (e collettive) di chi agisce nelle e attraverso le tecnologie digitali, senza immaginare un soggetto resistente, ma tenendo gli sguardi aperti per individuarne l’emersione, anche in forme inedite e collettive. Voce 2: Corpo e tecnologia non sono mai stati così ibridi, il confine tra corpo singolo, collettivo e tecnologie digitali viene frammentato per produrre resistenza. Voce 1: Una relazione transfemminista con la tecnologia non può non dare visibilità allo spazio della soggettività e del corpo, perché proprio questi sono gli elementi al centro delle trame del potere e della gerarchizzazione. Il tecnotransfemminismo troverà linguaggi e percorsi di apprendimento che non diano semplicemente una mano di bianco alle tecnologie, ma le facciano funzionare in modo permanente se non funzionano o giungano a effetti in grado di decostruire la macchinazione originaria del sistema. Voce 2: Una tecnologia transfemminista non ha paura né delle macchine né dell’autoesplorazione del corpo, per sapere cosa c’è dentro, cosa c’è nella cervice e oltre. Una tecnologia transfemminista sarà un esercizio collettivo e sistematico di perdita di paura, una ricerca per conoscere come si connettono i cavi (culturali o meccanici) all’interno delle scatole rappresentate dai nostri corpi o dai notebook. Una tecnologia transfemminista si prenderà gioco dell’obsolescenza programmata del corpo per programmare l’obsolescenza del genere, e allo stesso modo palperà le macchine, riutilizzerà i componenti, saprà come aprire il portatile o conoscere i piaceri anali. Voce 1: Il corpo è un’invenzione. Produco e riproduco numerosi Io, li incarno e contemporaneamente nessuno di essi è me, nessuno di essi mi descrive completamente. È un’espropriazione che non va considerata una perdita, ma una risorsa. Voce 2: Assumere che il corpo diventi un progetto (sia esso individuale o collettivo), significa accettare che il suo aspetto, la sua dimensione e le sue componenti siano potenzialmente soggette alla volontà di trasformazione, gestione e manutenzione da parte di chi quel corpo lo abita, lo attraversa, lo hackera. Voce 1: Questo archivio è in realtà un corpo, o meglio, questo archivio è il mio corpo. Questo è l’archivio grazie al quale sono cresciuto come persona, come militante e come artista. Voce 2: Pensiamo il corpo-spazio nei termini di una somateca, ossia come un archivio di finzioni politiche vive che in nessun modo possono costituire un unico corpus. Le tecnologie occupano oggi una superficie molto ampia di questo archivio, per gli ineluttabili, poiché voluti ma anche subiti, legami che i nostri corpi hanno intessuto con esse. Voce 1: E questa enfasi sui corpi e sui loro posizionamenti è fondamentale per non cadere nella tentazione di vedere nelle tecnologie delle utopie già in atto. Voce 2: La sfida è quella di non distogliere lo sguardo dai lati oscuri degli schermi digitali e provare a smontarli o ad abitarli a partire da sé, senza nessuna illusione di un progresso che conduca necessariamente a delle sorti migliori. Voce 1: In quali modi i corpi possono usare la tecnologia e non essere usati da questa? Voce 2: Il corpo ha una memoria, non bisogna andare troppo lontano, una tecnologia transfemminista porta incisa sulla carne la reclusione di Angela Davis, la caccia alle streghe, le trans morte in una qualsiasi frontiera, nelle loro case. Un corpo transtecnofemminista conosce l’ingiustizia e la violazione, conosce e convive con la precarietà delle macchine (che sono nel suo corpo). Il corpo cyborg va inteso come un corpo segnato, attraversato dalla lotta di classe, dalla xenofobia e dal razzismo. Voce 1: Ciò comporta innanzitutto il superamento (nei nostri modi di pensare e nei nostri quadri di interpretazione) dell’idea che esistano solo due corpi standard e facilmente identificabili, e il riconoscimento di uno spettro di diversità nelle corporeità, sensibilità e piaceri. In parallelo, si pone la necessità di modificare i nostri linguaggi quando interagiamo con altru, attuando una degenderizzazione e rigenderizzazione della sessualità e dei sessi per includere tale spettro di diversità, sia corporea sia identitaria. Voce 2: L’esperienza trans smaschera il fatto che il nesso binario corpo-sesso-genere influenza non solo i discorsi intorno ai soggetti sessuati, ma anche gli stessi processi organizzativi intorno alla sessualità. Voce 1: L’identità è anche un risultato temporaneo delle relazioni che intrecciamo, una performance nel contesto del quotidiano, che può variare, trovare nuove strade e nuovi gesti. Voce 2: Per identità non consideriamo qualcosa di acquisito e immutabile, né un processo solipsistico che dipende solo da ognuna di noi. Io non costruisco la mia identità da sol*, ma in un continuo scambio. Voce 1: Dal forno a microonde, al telefono, alla pillola anticoncezionale, alla robotica e ai software, la tecnologia ha un ruolo nella strutturazione dei ruoli sociali, e l’emarginazione delle soggettività che non aderiscono alla norma cis-etero-bianca da parte della comunità tecnologica ha una profonda influenza sul contenuto, il design, la tecnica e l’uso di artefatti tecnologici. Voce 2: Le tecnologie sono un oggetto conteso, attraversato da tensioni e ambivalenze, in cui vi è lo spazio per processi politici di soggettivazione. Voce 1: Chiunque sia statu ritenutu “innaturale” a fronte delle norme biologiche dominanti, chiunque abbia sperimentato le ingiustizie compiute in nome dell’ordine naturale, si renderà conto che il culto della “natura” non ha nulla da offrirci e da offrire. Voce 2: È proprio evitando di parlare di sessualità da una prospettiva trans che si corre il rischio di avallare la mancanza di un immaginario socioculturale autoprodotto (e alternativo a quello cis-eteropatriarcale): l’unico davvero capace di permettere alle persone trans di riconoscersi e di essere riconosciute come soggetti desideranti e desiderabili Voce 1: Viviamo nell’era del bio-info-potenziamento, la mediazione tecnologica è talmente immanente alle nostre vite che è diventato impossibile distinguere confini tra natura e tecnica, desiderio e necessità. Perde sempre più senso la rappresentazione della realtà materiale come polo opposto della realtà virtuale. Viviamo l’epoca della realtà aumentata e investiamo sempre più in ricerca medico- farmaceutica Voce 2: La vita umana non è un miracolo, ma un’invenzione storico-tecno-politica relativamente recente. Leggi e regolamenti restrittivi incentrati sull’eterosessualità, strategie di marketing e comunicazione imbevute di whiteness, campagne pubblicitarie sature di essenzialismo maternalista vorrebbero mettere a tacere il potenziale sovversivo delle nuove tecnologie della vita. Le mutazioni in corso, tuttavia, sono molteplici e virali, soggettive e collettive, virtuali e materiali: per molte/i sessualità e riproduzione sono territori da esplorare fuori dai confini dei sessi, dei generi e delle relazioni prestabilite. Voce 1: Abbiamo bisogno di nuove possibilità concrete di percepire e agire, senza il paraocchi delle identità naturalizzate. In nome del femminismo, la “natura” non sarà più un ricettacolo di ingiustizie o la base per qualsiasi tipo di giustificazione politica! Se la natura è ingiusta, cambiala! Voce 2: Costruiamo una società in cui i tratti attualmente riuniti sotto la rubrica del genere non possano più fornire una griglia per il funzionamento asimmetrico del potere. Voce 1: Il ragionamento sui soggetti e sui corpi non può prescindere da una critica al capitalismo, e questa a sua volta non può essere separata dal pensiero (cyborg)femminista, ovvero da una considerazione sul rapporto tra tecnologie e genere. Voce 2: Il cyborg in quanto corpo-macchina è una figura ibrida, è il meccanismo che fa saltare ogni binario, natura/cultura, umano/ animale, maschio/femmina. È un soggetto che è materialmente incarnato e allo stesso tempo rafforzato da una carica simbolica, e nasce all’interno dello stesso sistema tecnologico che critica, è storicamente contingente e critica la soggettività liberale. Voce 1: Non si può dimenticare che il cyborg è un essere incarnato e non bisogna cadere nella trappola cartesiana che ci fa dimenticare i nostri corpi per dimenticare i corpi delle minoranze. Voce 2: La sfida potrebbe essere, in questo senso, quella di portare la propria esperienza incarnata e il proprio sapere situato nei, e attraverso, gli ambienti digitali, per metterne in discussione i dispostivi: se la confessione si nutre della sessualità, infatti, il transfemminismo può offrirci uno strumento per trasformarla in una politica del posizionamento che possa sovvertire le norme di genere (ma non solo) riprodotte anche nel rapporto con le tecnologie digitali. Voce 1: Come è possibile praticare strategie creative di sovversione degli effetti del controllo e le spinte normalizzanti prodotti dalla pervasività delle tecnologie digitali? Voce 2: Alcuni degli ambienti digitali in cui siamo immersi non si materializzano come qualcosa di esterno con cui mi posso confrontare, ma le funzioni di controllo attraversano differenti oggetti e strumenti che sono sempre più naturalizzati nella nostra vita di tutti i giorni. Diventa, quindi, più complesso riconoscere le istituzioni e i discorsi verso cui indirizzare la performance. Voce 1: Indagare concetti come sorveglianza, identità e spazio pubblico nei media digitali per immaginare nuovi spazi creativi di sovversione. Voce 2: Attraversare i confini significa spesso andare oltre i propri limiti, maturare, scoprire cose nuove. Le immagini che accompagnano questo attraversamento sono di frequente legate a un’idea di seduzione. Il confine è un paesaggio discorsivo in cui coesistono una dimensione normativa e l’esperienza quotidiana. Ragionare sulla sua pervasività significa analizzarlo come una tecnologia che riproduce divisioni sociali, anche attraverso il controllo e il disciplinamento dei corpi. Voce 1: Ridirigere lo sguardo verso il margine piuttosto che verso il centro, ci permette non solo di vedere i margini ma soprattutto di vedere che sono abitati, che a ogni spazio-centro corrisponde un margine occupato, spazi liberati che possono diventare il terreno in cui edificare l’utopia. Voce 2: Quando pensiamo creiamo territori. Quando viviamo e ci raccontiamo le nostre esperienze creiamo territori. Ma è soprattutto quando immaginiamo e/o desideriamo che creiamo territori. Voce 1: Si tratta di un cambiamento epistemologico cruciale: i margini diventano spazi di creazione, di condivisione, di elaborazione di strategie collettive, dei contro- spazi di elaborazione di nuove maniere di guardare il mondo. Il margine come spazio contro egemonico è il luogo della condivisione delle esperienze, delle situazioni, dei percorsi di vita. Voce 2: Il margine diventa allora lo spazio privilegiato per l’elaborazione di micro politiche di diffusione virale, lo spazio del contrattacco. Voce 1: Spazio, come femminismo, come corpo, è plurale, anche quando lo si legge al singolare. Voce 2: “Le strade libere le fanno le donne che le attraversano” non è uno slogan, è un progetto, un pensiero che si incarna, e vale anche per le strade elettroniche. Voce 1: Io chiedo una tecnologia transfemminista che crei i suoi spazi di sicurezza, nella città e nella rete. Chiedo server liberi, senza censura, nei quali non si debbano dissimulare i contenuti né autocensurare i video. Chiedo di organizzarci per ottenerlo. Voce 2: Dove non c’è consenso c’è violenza, anche nella sfera digitale. Voce 1: Anche le tecnologie sono engendered. In particolare le tecnologie di informazione e comunicazione, sia del punto di vista della produzione sia da quello della loro fruizione, si sviluppano in relazione con il genere, una relazione in cui l’una influenza l’altro e viceversa. Voce 2: Contro la sorveglianza e la chiusura nel privato supportato da tecnologie securitarie non possiamo che rivendicare l’apertura e la condivisione, anche degli strumenti tecnici, per evitare la riproduzione di gerarchie che continuano a correre sulla linea del genere e della razzializzazione. Ma anche la necessità di spazi opachi, non visibili, non mostrati. Voce 1: La tecnologia è sempre il prodotto di un’organizzazione sociale della quale mira a riprodurre i rapporti di potere e le categorizzazioni, e il gesto di decostruirla è un gesto politico proprio perché spezza questa catena di riproduzioni inserendo variazioni, consapevolezza, posizionamenti e materialità. Voce 2: Rinunciare a utilizzare gli strumenti del padrone, quindi, non significa rinunciare alla tecnica, ma all’organizzazione dalla quale è prodotta e che ricrea. Voce 1: La società cambia solo se cambiano i rapporti di subordinazione e questo non può che partire dalle soggettività oppresse o escluse, dai margini, dalle maglie che non tengono: dalle smagliature. Voce 2: Non ci sottraiamo al dolore, non vogliamo essere eroine, lo attraversiamo. Voce 1: I nostri corpi-spazi sono vulnerabili, li proteggiamo, li rifiutiamo, li travestiamo, li spogliamo, li occupiamo, li lasciamo. Voce 2: È proprio in questa esplosione dei plurali negata dall’eteronormatività che abita il transfemminismo queer.
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![]() Tre anni fa ho deciso di fare un film. E ho deciso di farlo coinvolgendo i richiedenti asilo. Si trattava di uno zombie movie ambientato in un centro d'accoglienza. Per poter coinvolgere attivamente i ragazzi di diversi Sprar della capitale, ho creato un laboratorio di recitazione e videomaking chiamato "Il ponte sullo schermo". Alle lezioni, a parte qualche rara eccezione, hanno partecipato quasi solo uomini. Questa cosa ha preoccupato enormemente mia madre, vittima della propaganda a reti unificate che, in quel periodo, la faceva da padrona. Sua figlia, da sola, assieme ad una ventina, trentina di uomini neri (quindi, nella narrazione di quarta colonna e simili, quasi sicuramente degli stupratori), con una cultura diversa dalla nostra. Perché non fare, invece, un laboratorio tutto "al femminile", rivolto a quelle donne che ancora non hanno avuto modo di emanciparsi, che non hanno conosciuto e vissuto gli anni della rivoluzione femminista? Sinceramente non mi ero posta il problema. Non mi interessava il sesso biologico dei partecipanti al mio laboratorio. Di una cosa, peró, ero certa. Se avessi voluto in qualche modo portare avanti le istanze femministe tra i richiedenti asilo non avrei fatto nulla di diverso da ció che ho fatto. Perché, independentemente dalla nazionalitá, io ero l'unica donna tra venti, trenta persone. Ed ero l'insegnante. Gli altri erano lí per imparare da me, per conoscere delle competenze delle quali io ero in possesso e loro no. Una donna che insegna a venti, trenta uomini. Cosa c'era di meglio per promuovere la paritá di genere? La cosa della quale spesso ci dimentichiamo è che, di pari passo all'emancipazione delle donne, vi deve essere una presa di coscienza degli uomini. Di tutti gli uomini. Perché in quanto a patriarcato e maschilismo non abbiamo bisogno di "prendere lezioni" da nessuno. Burundi, Sri Lanka, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Liberia, Bangladesh, Senegal, Cina, Ruanda, Malawi, Turchia, Filippine, Pakistan, Mali, India, Haiti, Namibia, Nepal, Birmania, Indonesia, Guyana, Perú, Cile, Giamaica, Argentina, Panama, Costa Rica. Queste sono solo alcune delle nazioni al mondo nelle quali c'è stata almeno una Presidente o una Prima Ministra donna. In questa lista, l'Italia e diversi altri paesi considerati "occidentali" (dove teoricamente si dovrebbe essere raggiunta una supposta "parità di genere"), non ci sono. Il bello è che parecchi dei miei connazionali sono tuttora convinti che il problema più grande per le donne in Italia, oggi, siano i miei studenti. Luna Gualano |
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August 2019
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